Uscita dalla porta, rientrata dalla… griglia: la decisione a sorpresa del Tribunale di Varsavia sul caso AUDI
All’inizio del 2024, ha suscitato un certo interesse tra gli esperti la sentenza della CGUE nella causa C-334/22 Audi relativa all’uso del marchio della casa automobilistica su pezzi di ricambio prodotti da terzi. Si tratta della decisione più importante della Corte in materia dopo l’ordinanza Ford del 2015 ed è stata ampiamente commentata su tutti i principali siti giuridici.
La maggior parte degli operatori professionali, compreso il sottoscritto, aveva letto la decisione della Corte come una vittoria delle case automobilistiche contro gli operatori indipendenti dell’aftermarket. Ciò che certamente pochi si aspettavano è che la causa di merito innanzi al Giudice remittente, il Tribunale Regionale di Varsavia, avrebbe avuto un esito esattamente opposto.
È, tuttavia, esattamente quello che è successo circa un anno dopo, quando è stata resa pubblica la sentenza di merito del Tribunale di Varsavia. Per meglio comprendere la fine, è però bene partire dall’inizio.
La questione approdata innanzi alla CGUE nel 2022 riguardava griglie non originali per radiatori di vecchie Audi, commercializzate da un distributore polacco. Esse, così come le originali, integravano un alloggiamento per il successivo montaggio dell’emblema Audi (i famosi quattro anelli intrecciati), che corrisponde a un marchio UE registrato da Audi anche per pezzi di ricambio e accessori per auto. Poiché la sagoma dell’alloggiamento ricalcava quella dell’emblema da montare, essa ricalcava anche il contorno del marchio. Audi aveva dunque agito contro il distributore polacco innanzi al Tribunale Regionale di Varsavia dolendosi che la commercializzazione di quelle griglie costituisse violazione dei propri diritti di marchio.
Il Tribunale di Varsavia aveva ritenuto che la decisione richiedesse una pronuncia pregiudiziale interpretativa della CGUE. In estrema sintesi, il Giudice polacco poneva in dubbio la natura stessa di “segno distintivo” di una sagoma integrata in un pezzo di ricambio, e, dunque, la riconduzione della fattispecie al perimetro di applicazione dell’art. 9 RMUE sui poteri interdittivi del titolare del marchio UE; si chiedeva inoltre se, d’altro canto, la fattispecie non potesse ricondursi ai casi di cosiddetto uso “referenziale” del marchio di cui all’art. 14 RMUE, relativo alle limitazioni dei diritti del titolare.
La CGUE, che aveva parzialmente riformulato i quesiti, aveva preliminarmente ritenuto che una sagoma che riproduce un segno, per quanto integrata in un pezzo di ricambio, sia pur sempre un segno; che la sua incorporazione nel ricambio equivalga ad “apposizione del segno sul prodotto”; e che la commercializzazione del ricambio in questione costituisca un “uso del segno nel commercio”, astrattamente rilevante ai sensi dell’art. 9 RMUE.
La Corte aveva anche riaffermato due concetti già espressi proprio in Ford: i) la “clausola di riparazione” presente nel regolamento n. 6/2002 apporta determinate limitazioni soltanto alla tutela conferita ai disegni e modelli, ma non può incidere sull’interpretazione dell’art. 9 del RMUE; ii) l’obiettivo di preservare una concorrenza non falsata nell’ambito dei marchi, conciliando la tutela conferita dal marchio con la libera circolazione delle merci e la libera prestazione dei servizi, è stato già preso in considerazione nell’art. 14 del RMUE. Queste precisazioni erano state rese necessarie dall’allusione del giudice remittente alla possibile necessità di pervenire a una certa interpretazione dell’art. 9 in ragione dell’assenza di una “clausola di riparazione” nel diritto dei marchi.
La Corte aveva tuttavia – com’è naturale – lasciato al Giudice remittente di determinare se, nel merito, ricorresse una delle tre ipotesi di contraffazione tipizzate dall’art. 9 comma 2 - c.d. doppia identità, similarità confusoria tra segni e/o prodotti, uso ingiustificato del marchio notorio – e se vi fosse pregiudizio a una delle funzioni del marchio (c.d. “teoria della funzione”).
Letteralmente, la risposta della Corte al primo quesito recitava:
“L’articolo 9, paragrafo 2, e paragrafo 3, lettere da a) a c), del regolamento (UE) 2017/1001 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2017, sul marchio dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che un terzo che, senza il consenso del costruttore di autoveicoli titolare di un marchio dell’Unione europea, importa e pone in vendita pezzi di ricambio, ossia griglie per radiatori per tali autoveicoli, contenenti un elemento progettato per il fissaggio dell’emblema che rispecchia tale marchio e la cui forma è identica o simile a detto marchio, fa uso di un segno nel commercio in un modo che può pregiudicare una o più funzioni del medesimo marchio, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare (enfasi aggiunta, n.d.r.)”.
La Corte aveva, inoltre, risposto al quesito circa l’applicazione dell’art. 14 RMUE escludendo che la particolare forma di apposizione del segno sul prodotto portata alla sua attenzione potesse ricondursi al caso di uso “referenziale” del marchio, in quanto finalizzata a commercializzare una griglia per radiatori che assomigliasse nel modo più fedele possibile all’originale e non ad informare il pubblico sulla destinazione del prodotto.
I commentatori della sentenza Audi che hanno presentato quest’ultima come una vittoria dei costruttori di auto possono ritenersi ben giustificati. Entrambi i dubbi sollevati dal Tribunale di Varsavia sono stati obiettivamente risolti dalla Corte in senso opposto a quello auspicato dal convenuto e, più in generale, dal mondo degli operatori indipendenti dell’aftermarket. La sentenza, anzi, appariva, per questi ultimi, ancora più negativa della decisione Ford del 2015, perché, mentre quella si era limitata a dichiarare l’impossibilità di applicare una norma in materia di modelli (la “clausola di riparazione”) per limitare i diritti dei titolari dei marchi, questa aveva respinto tesi pro-ricambisti basate formalmente sulla disciplina dei marchi.
Del resto, anche i numerosi precedenti di merito di Tribunali dei Marchi UE favorevoli alle case automobilistiche, intervenuti negli anni successivi alla decisione Ford, , lasciavano presagire che per il convenuto polacco, ora che l’ambito delle difese spendibili si era ulteriormente ristretto, si profilasse a maggior ragione una condanna.
Tuttavia, come anticipato, all’inizio del 2025 il Tribunale di Varsavia, innanzi al quale la causa è stata riassunta, ha respinto le domande di Audi. Com’è facile intuire, il Tribunale polacco è arrivato a questo risultato inatteso nell’unico modo possibile, cioè, muovendosi nello spazio di libertà necessariamente riconosciutogli dalla CGUE circa l’applicazione dell’art. 9 RMUE al caso concreto.
Premesso che di questa sentenza ho potuto esaminare una traduzione in inglese, gentilmente fornitami da una collega polacca, e che dunque qualcosa potrebbe essere lost in translation nel doppio salto tra la lingua di partenza e la mia lingua madre, confesso che ci sono alcuni passaggi della motivazione che mi risultano tuttora oscuri; in ogni caso, proverò qui di seguito a sintetizzarne le ragioni, per quanto mi è dato di comprendere.
Il giudice polacco ha premesso che, nel merito, la vicenda pendente innanzi a sé non riguardava, a suo parere, un uso nel commercio di segno identico al marchio azionato, ma di segno simile, perché il marchio registrato Audi conterrebbe “elementi argentati lucidi” non presenti nelle griglie commercializzate dal convenuto. Ha inoltre affermato che, da un lato, non vi fosse rischio di confusione, perché i consumatori avrebbero percepito le griglie come non originali grazie alle inequivocabili indicazioni della convenuta e alla qualità inferiore del prodotto; e, dall’altro, il marchio AUDI interessato dalla vicenda fosse notorio, dunque meritevole della tutela di cui all’art. 9 comma 2 lett. c) RMUE. Secondo il giudice, sebbene il rischio di confusione sia irrilevante rispetto alla protezione di marchi notori, la sua assenza giocherebbe comunque un ruolo nella valutazione della contraffazione.
Fatte queste premesse, il Giudice ha concluso che non vi fosse pregiudizio alle funzioni del marchio e dunque, in ultima analisi, non vi fosse contraffazione, perché difetterebbe nel caso concreto il requisito dell’assenza del “giusto motivo” per l’uso di un segno simile, che è elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 9 comma 2 lett. c) RMUE.
Il convenuto, in particolare, avrebbe diversi “giusti motivi” per l’uso di un segno simile al marchio notorio Audi.
Il primo sarebbe garantire ai consumatori polacchi l’accesso ai pezzi di ricambio nuovi per le proprie auto Audi usate (che in Polonia sarebbero presenti in numero non marginale), accesso che altrimenti sarebbe difficile o impossibile in quantola Audi non produrrebbe più i pezzi di ricambio in questione, relativi a veicoli degli anni ’80 e ’90.
Il secondo sarebbe garantire ai consumatori polacchi, tramite l’accesso a ricambi per auto usate, la possibilità di continuare a possedere e utilizzare le stesse, il che avrebbe un effetto virtuoso sull’ambiente (in quanto mantenere auto più vecchie invece di produrne di nuove sarebbe, su scala globale, meno inquinante).
La condotta del convenuto sarebbe, inoltre, priva di qualsiasi intenzione di sfruttare la reputazione di Audi, di utilizzare i suoi sforzi pubblicitari o di sfruttare gli sforzi di investimento della casa automobilistica(cosiddetto free-riding), il che discenderebbe dalla consapevolezza dei consumatori di stare acquistando parti non originali e la reputazione di Audi non sarebbe danneggiata dall'uso di una griglia del radiatore non originale in auto più vecchie, risalenti a diversi anni fa e solitamente di scarso valore materiale..
In conclusione, il “grimaldello” utilizzato per neutralizzare le domande del titolare del marchio è stato in questo caso il concetto “aperto” di “giusto motivo” di cui all’art. 9 comma 2 lett. c) del RMUE.
La soluzione giuridica alfine data alla vicenda dal giudice di merito avrebbe potuto essere raggiunta anche senza l’intervento della CGUE: quest’ultima non era chiamata a definire il concetto di “giusto motivo” di uso del marchio notorio e nulla ha detto in merito. Per questo motivo, pur con tutte le cautele del caso, è difficile liberarsi della tentazione di leggere la sentenza polacca come una reazione “correttiva” ad una pronuncia pregiudiziale ritenuta insoddisfacente e, in ultima analisi, come ad un modo di far rientrare dalla finestra ciò che era uscito dalla porta. Contribuisce ad alimentare queste perplessità l’uso in qualche misura disinvolto del concetto di (assenza di) rischio di confusione, definito al contempo irrilevante e rilevante.
Ad ogni modo, è prevedibile che la sentenza sarà o sia stata già appellata, e se questo è il caso sarà interessante conoscere l’esito dell’appello.