Detenzione di software non licenziato da parte dell’azienda e responsabilità personale degli amministratori: una sentenza del Tribunale delle Imprese di Milano
Con sentenza n. 6240/2025 del 26 luglio 2025, il Tribunale delle Imprese di Milano ha condannato al risarcimento dei danni per detenzione di copie abusive di applicativi software, in solido con la società detentrice, il Presidente del Cda della stessa.
Si tratta della conferma di una tendenza ormai consolidata della giurisprudenza specializzata.
Il caso
L’attrice - produttrice di software utilizzati nelle attività di disegno, progettazione e produzione industriale – apprendeva, tramite il portale “S.I.A.C.” della Guardia di Finanza[1], dell’esistenza di un procedimento penale per reati in materia di diritti d’autore che aveva interessato anche un proprio prodotto.
In particolare, a seguito di un controllo antipirateria eseguito presso una società del pavese, la GdF aveva rinvenuto e posto sotto sequestro alcuni computer aziendali contenenti applicativi riconducibili a diverse software house, tra cui l’attrice, per i quali la società non era stata in grado di esibire licenze d’uso.
Il procedimento penale si era concluso con decreto penale di condanna del legale rappresentante della società al pagamento di multa di € 5.000 per il delitto di detenzione di copie abusive di software a scopo imprenditoriale di cui all’art. 171-bis legge n. 633/1941, con confisca dei beni sequestrati.
L’attrice aveva, pertanto, promosso giudizio civile nei confronti della società e del suo Presidente del Cda all’epoca dei fatti per chiedere l’accertamento della violazione dei propri diritti d’autore sul software in questione e la condanna dei convenuti in solido al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale.
La decisione
Il Tribunale ha ritenuto provata la violazione dei diritti d’autore dell’attrice sul proprio software alla luce degli accertamenti compiuti dalla Guardia di Finanza, delle risultanze del procedimento penale e del fatto che i convenuti non avessero fornito, nemmeno in sede civile, alcuna prova della titolarità di licenze d’uso dei software installato presso i pc aziendali.
Circa il valore probatorio degli atti di procedimenti penali, il Tribunale ha rilevato che, per quanto l’art. 460 c.p.p. disponga che il decreto penale di condanna non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi «ciò non toglie che quel decreto assuma il valore di un fatto da valutare congiuntamente ad altri elementi probatori emersi nel corso del processo», citando un precedente di Cassazione relativo a sentenza di patteggiamento e ritenuto applicabile mutatis mutandis al caso di specie.[2]
Il Tribunale ha, altresì, riconosciuto la sussistenza del danno e del diritto al risarcimento da parte dell’attrice. Il danno patrimoniale è stato liquidato dal Giudice, ex art. 158 l.d.a., secondo il criterio del “prezzo del consenso”, ovvero moltiplicando il prezzo commerciale della licenza d’uso relativa ai programmi oggetto del giudizio per il numero di copie abusive rinvenute presso la società convenuta. A tale importo, rivalutato, sono stati applicati interessi legali in base agli indici Istat anno per anno dalla data dell’illecito fino alla data della sentenza.[3]
Il Tribunale ha, inoltre, posto che la duplicazione abusiva di programmi per elaboratore costituisce reato ex art. 171 bis l.d.a., riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale ex artt. 58 l.d.a. e 2059 c.c.[4], liquidandolo equitativamente in un importo pari al 5% del danno patrimoniale (ed applicando gli interessi anche a tale somma).
I Giudici hanno, infine, accolto la tesi dell’attrice che dell’illecito debba rispondere in via solidale con la società anche il Presidente del Consiglio di amministrazione e legale rappresentante all’epoca dei fatti: ciò in applicazione degli artt. 2395 e 2476 co. VII c.c., secondo cui i terzi direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori hanno diritto al risarcimento del danno da parte di questi ultimi.
I Giudici hanno, in particolare, ritenuto che, sul piano oggettivo, la condotta “quantomeno omissiva” del Presidente del CdA abbia avuto efficacia causale diretta nella causazione dell’illecito; su quello soggettivo, che «(omissis) la carica ricoperta e il ridotto numero di dipendenti della società consentono di ritenere che lo stesso fosse consapevole dell’uso illecito dei programmi; il fatto stesso che l’accertamento della Guardia di Finanza abbia consentito di rinvenire copie abusive di software, di titolarità anche di società diverse dall’attrice, porta inoltre a ritenere che la duplicazione illecita dei programmi non sia stata una condotta isolata ma un modus operandi della società di cui il suo legale rappresentante non poteva non essere a conoscenza».
La sentenza ha dunque condannato in via solidale tra loro i convenuti al risarcimento del danno e delle spese di lite e disposto nei loro confronti un ordine di rimozione del software oggetto di giudizio dai supporti informativi, accompagnato dalla previsione di una penale per ogni giorno di ritardo nell’attuazione del provvedimento.
In definitiva, la decisione qui commentata pone in rilievo che l’impiego di software non licenziato in ambito aziendale costituisce un rischio personale per gli amministratori, sottolineando l’importanza delle politiche di compliance.
[1] Il S.I.A.C. (Sistema Informativo Anti-Contraffazione) è una piattaforma informatica gestita dalla Guardia di Finanza che permette, tra l’altro, lo scambio e condivisione di informazioni tra forze dell’ordine e titolari di diritti per la lotta alla contraffazione.
[2] Si tratta di Cass. 20170/2018, secondo cui «(omissis) la celebrazione d’un giudizio penale, e la sentenza che lo conclude costituiscono pur sempre dei fatti storici. Sono fatti storici, in particolare, le circostanze che l’Autorità Inquirente abbia chiesto il rinvio a giudizio dell’imputato, che il Giudice dell’Udienza Preliminare abbia accolto tale richiesta, che l’una e l’altra decisione siano state assunte sulla base di determinate fonti di prova, che saranno di norma indicate nelle rispettive motivazioni. Questi fatti, come qualsiasi altro fatto avvenuto nel mondo reale, ben possono essere presi in esame dal giudice civile, in quanto qualsiasi fatto storico può costituire un indizio. In quanto tale, esso di per sé non avrà alcuna efficacia probatoria, ma potrà acquistarla se valutato insieme ad altri indizi, che abbiano i tre requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. »
[3] Secondo giurisprudenza consolidata della Cassazione, sulla somma che esprime il risarcimento del danno da fatto illecito sono dovuti interessi e rivalutazione dal giorno in cui si è verificato l'evento dannoso; la rivalutazione ha la funzione di ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato anteriormente all'evento dannoso, mentre gli interessi servono a liquidare il nocumento finanziario (lucro cessante) subito a causa del ritardato conseguimento della somma, che se corrisposta tempestivamente avrebbe potuto essere investita per lucrarne un vantaggio economico: essi pertanto vanno calcolati sulla somma originaria rivalutata anno per anno.
[4] L’art. 158 comma 3 L.d.A. consente il risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c. che, a sua volta, prevede espressamente il risarcimento di tale danno nei casi determinati dalla legge; tra i casi determinati dalla legge rientra il caso in cui l’illecito costituisca contemporaneamente reato ex art. 185 c.p.