Concorrenza sleale per storno di collaboratori e sottrazione di segreti commerciali: una sentenza compilativa del Tribunale di Torino
Una recente (n. 1481/2025 del 26/3/2025) sentenza del Tribunale delle Imprese di Torino in tema di concorrenza sleale per storno di dipendenti e violazione di segreti offre un’utile panoramica su queste due fattispecie, che fenomenologicamente tendono a presentarsi assieme.
I fatti
L’attrice era una società piemontese specializzata nel confezionamento e commercializzazione di prodotti alimentari, venduti “porta a porta”, o telefonicamente, tramite una rete di addetti alla vendita.
Ogni addetto alla vendita operava in una determinata provincia e aveva un suo portafoglio clienti, alle informazioni sui quali poteva accedere tramite un’apposita app aziendale con un account personale protetto da password. Le informazioni inserite in questa banca dati dei clienti comprendevano, tra l’altro, lo storico degli ordini, i prezzi applicati, la tipologia degli acquisti, le preferenze ed eventuali intolleranze, i preferenziali strumenti di pagamento.
Tutti gli addetti alla vendita al momento del reclutamento sottoscrivevano un patto di non concorrenza biennale relativo al periodo successivo alla loro uscita dall’azienda.
Secondo l’attrice, in un arco temporale di pochi mesi, circa un quinto dei propri addetti alla vendita per il nord Italia era passato alla convenuta, una diretta concorrente, e, in violazione del patto di non concorrenza, aveva cominciato la vendita per conto di quella dei medesimi prodotti commercializzati dall’attrice, nella medesima area territoriale precedentemente assegnatagli e presso gli stessi clienti.
La convenuta, sebbene diffidata, non solo non aveva posto fine alle attività in questione, ma aveva proseguito la propria campagna di reclutamento di ex addetti dell’attrice, alcuni dei quali avevano cominciato a lavorare con la convenuta prima ancora di dimettersi e, dunque, avendo ancora pieno accesso agli elenchi clienti.
L’attrice, lamentando che le condotte in questione integrassero concorrenza sleale per storno di collaboratori ex art. 2598 c.c. n. 3 e violazione di segreti commerciali ex artt. 98 e 99 c.p.i., aveva quindi chiesto al Tribunale di Torino di inibire le condotte asseritamente illecite e accordarle il risarcimento del danno.
La convenuta, da parte sua, aveva eccepito che le ragioni dell’esodo di una quota rilevante degli addetti da un’azienda all’altra risiedessero nell’insoddisfazione personale e professionale, che in ogni caso non potessero esserle imputate condotte intraprese in autonomia da soggetti non in rapporto di subordinazione con essa e che, più in generale, non vi fosse prova di una macchinazione intesa a destabilizzare l’impresa concorrente, né di alcuna violazione di segreti commerciali.
La motivazione
Il Tribunale di Torino ha accolto in pieno le ragioni dell’attrice.
Sulla fattispecie della concorrenza sleale per storno di collaboratori, i Giudici piemontesi hanno ricordato che la giurisprudenza richiede la consapevolezza nell’agente dell'idoneità dell'atto a danneggiare l'altrui impresa e l'animus nocendi, cioè l'intenzione di conseguire tale risultato, da ritenersi provato “ogni volta che lo storno sia stato posto in essere con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell'autore l'intento di recare pregiudizio all'organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente”.
L’intenzionalità, hanno ricordato i giudici, si può ricavare in via presuntiva da circostanze oggettive, tra cui la quantità di soggetti stornati, la portata dell’organizzazione complessiva dell’impresa concorrente, la posizione che i soggetti stornati rivestivano all’interno dell’azienda concorrente, la loro scarsa fungibilità, la rapidità dello storno e la mancanza di preavviso, l’induzione a violare l’obbligo di fedeltà e di non concorrenza in costanza del rapporto di lavoro, il parallelismo con l’iniziativa economica del concorrente stornante e, più in generale, l’utilizzo di mezzi subdoli o scorretti, tra cui la sottrazione di dati riservati.
I giudici hanno ritenuto che il materiale probatorio acquisito agli atti dimostrasse la sussistenza di tutti i requisiti della fattispecie.
In particolare, documenti, dichiarazioni scritte e testimonianze acquisiti nel corso dell’istruttoria confermavano che numerosi clienti dell’attrice erano stati contattati da ex collaboratori di questa proprio in concomitanza con il loro esodo verso la concorrente; risultava, altresì, provata la circostanza che le vendite porta a porta della convenuta nel nord Italia si fossero intensificate proprio nello stesso periodo, generando anche un notevole incremento di fatturato e una contestuale diminuzione del fatturato dell’attrice.
Queste circostanze, unitamente a quelle dell’arruolamento quasi simultaneo di un numero elevato di ex collaboratori, dell’analogia dei ruoli rivestiti in entrambe le imprese, dell’esistenza di un patto di non concorrenza e della sottrazione di segreti (su cui v. infra) sono state ritenute indicative della scorrettezza professionale della convenuta. In particolare, secondo il Collegio giudicante lo sfruttamento delle capacità professionali, dell’esperienza e delle stesse informazioni acquisite da ex venditori nel corso del rapporto di collaborazione con la società attrice ha consentito alla convenuta, presso cui costoro erano transitati, di ottenere un illecito vantaggio competitivo, con risparmio del tempo e delle risorse che sarebbe stato necessario impiegare per formare la rete di vendita, procurarsi autonomamente i clienti ed avviare correttamente la nuova attività di vendita “porta a porta”; la stessa attività illecita, specularmente, ha vanificato, o quanto meno compromesso, gli sforzi dedicati dall’attrice alla formazione dei propri addetti vendite e alla costruzione di una banca dati della clientela.
Quanto alla tesi che la condotta degli ex venditori dell’attrice non potesse essere imputata alla convenuta, per via dell’assenza di un rapporto di subordinazione e della correlativa capacità direttiva, i giudici hanno ricordato che “l’art. 2598, n. 3 c.c. consente di imputare l'illecito concorrenziale anche a quell'imprenditore concorrente che non abbia posto in essere direttamente, ma indirettamente, la condotta lesiva e che quindi è con il terzo in una particolare relazione per effetto della quale l'attività di quest'ultimo deve ritenersi svolta anche nell'interesse del concorrente, pur non essendo richiesto un pactum sceleris e neppure che la condotta venga attuata o deliberata da entrambi”.
Con riguardo alla violazione dei segreti commerciali, il Tribunale ha ritenuto provato che gli ex addetti alle vendite transitati alla convenuta avessero illecitamente acquisito e sfruttato nell’interesse di questa informazioni tutelabili ex artt. 98 e 99 c.p.i concernenti l’elenco clienti ed i relativi dati.
Per giungere a tale conclusione, i giudici torinesi hanno anzitutto verificato la sussistenza dei tre requisiti di tutela delle informazioni aziendali di cui agli artt. 98 e 99 c.p.i., vale a dire: 1) che le informazioni fossero segrete, cioè non generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed operatori del settore; 2) che possedessero valore economico in virtù della loro segretezza e, infine 3) che fossero state sottoposte a misure ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.
Questi requisiti sono stati ritenuti soddisfatti nel caso in esame. I Giudici torinesi hanno rilevato, anzitutto, che la tipologia e la granularità delle informazioni contenute nell’elenco clienti conferissero al loro insieme “un indubbio valore economico e commerciale, consentendo all’addetto di individuare con precisione quali prodotti offrire a ciascun cliente e di agevolarne la fidelizzazione”. L’elenco in questione è stato definito come una banca dati “capace di fornire un vantaggio competitivo che trascende la capacità e le esperienze del singolo lavoratore”.
I Giudici hanno inoltre rilevato che l’attrice aveva circondato l’elenco clienti di misure sia tecniche che giuridiche di protezione della riservatezza: tra le prime, il fatto che l’elenco fosse ad accesso riservato, protetto da credenziali personali, che ciascun addetto potesse vedere solo i clienti del proprio portafoglio e non potesse agevolmente condividerne le informazioni con altri, che la facoltà di accesso del singolo addetto fosse revocata dopo la fine del rapporto; tra le seconde, la clausola di riservatezza relativa ai clienti inclusa dall’attrice in tutti i contratti di collaborazione. Anche il patto di non concorrenza è stato ritenuto funzionale all’effetto protettivo delle informazioni relative ai clienti.
Non è stato ritenuto, invece, scriminante il fatto, enfatizzato dalla convenuta, che qualsiasi venditore avesse la possibilità di effettuare lo screenshot dell’interfaccia della app relativa al portafoglio clienti “non potendosi esigere che la società controlli ininterrottamente le attività dei propri addetti al fine di scongiurarne eventuali abusi”.
Così accertata la sussistenza di segreti commerciali tutelabili ex artt. 98 e 99 c.p.i., il Tribunale ha ritenuto altresì provato l’indebito sfruttamento dei medesimi segreti ad opera della convenuta, sulla base delle circostanze che larga parte degli ex collaboratori dell’attrice avessero iniziato a lavorare con la convenuta prima ancora di rassegnare le proprie dimissioni, dunque in costanza di accesso all’elenco clienti, e che molti degli ex clienti dell’attrice fossero stati contattati dai venditori passati alla concorrenza; e ritenendo del tutto inverosimile, d’altro canto, che i venditori potessero ricordare il nominativo ed i dati personali di centinaia di clienti (ogni addetto seguiva in media 600-700 clienti), o tanto meno le loro preferenze e richieste.
I provvedimenti emessi
Il Tribunale di Torino ha, pertanto, inibito alla società convenuta: i) di avvalersi delle prestazioni dei collaboratori stornati, anche per interposto soggetto, sino allo scadere del termine dei rispettivi patti di concorrenza; e ii) di rivelare a terzi o utilizzare in alcun modo le informazioni riservate da questi illecitamente sottratte, stabilendo una penale di € 1.000 per ogni violazione dell’ordine.
Ha inoltre condannato la convenuta al risarcimento dei danni subiti dall’attrice in conseguenza immediata e diretta delle condotte poste in essere dalla prima, calcolati in circa € 438mila comprensivi di rivalutazione e interessi, quale somma di lucro cessante (mancato guadagno) per perdita di fatturato documentata e di danno emergente, quest’ultimo suddiviso nelle due voci di perdita di valore patrimoniale del portafoglio clienti e spese necessarie alla ricostituzione della rete di venditori.
Ha, infine, ordinato la pubblicazione del dispositivo della sentenza sulla homepage del sito web della convenuta per sei mesi consecutivi e condannato quest’ultima a rifondere le spese legali.
Considerazioni
La sentenza appena commentata è l’ulteriore dimostrazione dell’utilità di instillare una cultura della protezione dei segreti commerciali nelle aziende italiane.
In altre parole, le informazioni che non sono suscettibili di essere tradotte in brevetto per invenzione, ovvero che l’azienda decide strategicamente di non brevettare (ritenendo sconveniente il trade-off costituito dalla durata limitata del monopolio brevettuale, rispetto alla potenzialmente infinita durata dell’esclusiva sui segreti commerciali), se hanno valore economico, dovrebbero essere circondate di misure di sicurezza tecniche e giuridiche adeguate.
Queste ultime non sono solo ontologicamente efficaci nel proteggere segreti commerciali, ma, ancor prima, sul piano giuridico, costituiscono uno dei presupposti per poter invocarne la tutela garantita dal Codice della proprietà industriale. È fondamentale, da questo punto di vista, che le misure in questione siano adottate dalle aziende in via preventiva, a prescindere dall’altrui illecito utilizzo.