Violazione di marchio: nota a sentenza del Tribunale di Milano n. 10130/2019

(La versione originale è pubblicata su Diritto 24 – Il Sole 24 Ore)

Lo scorso novembre, la Sezione Specializzata in Materia d’Impresa del Tribunale di Milano ha pronunciato una sentenza (n. 10130/2019, pubbl. il 08/11/2019) di un certo interesse in tema di violazione di marchio.

Una nota società americana produttrice di integratori alimentari e cosmetici e capogruppo di un gruppo internazionale, si era avveduta della presenza sul mercato italiano di un sito web di terzi, dedicato alla vendita online di suoi prodotti e avente tutte le apparenze del sito ufficiale.

Il nome a dominio del sito in questione – nome a dominio utilizzato anche per le email di corrispondenza con i clienti – era composto dalla denominazione sociale della capogruppo americana con l’aggiunta della parola “Italia”; le stesse due parole formavano la ditta dell’impresa responsabile del sito, del tutto estranea al gruppo. Sulle pagine del sito si faceva ampio uso di marchi non registrati, denominativi e figurativi, della multinazionale statunitense. I prodotti commercializzati tramite il sito erano apparentemente originali, ma almeno uno di questi non era mai stato introdotto sul mercato europeo dalla casa madre.

In aggiunta, tramite il servizio AdWords di Google, il sito si era garantito la preminenza tra i risultati di ricerche svolte utilizzando come parola chiave il nome della casa madre.

La capogruppo, assieme alla propria controllata e licenziataria italiana, aveva quindi agito in giudizio innanzi al Tribunale di Milano contestando alla ditta responsabile del sito la violazione dei propri marchi.

La convenuta si era difesa eccependo, tra l’altro, l’uso descrittivo dei segni in contestazione e il c.d. “esaurimento” dei diritti di marchio in relazione ai prodotti venduti.

Nel decidere la controversia il Tribunale ha, anzitutto, riconosciuto lo status di marchi di fatto proteggibili ex artt. 2571 c.c. e art. 2, comma 4, c.p.i.  ai segni denominativi e figurativi azionati dalle attrici, in virtù del loro carattere intrinsecamente distintivo (il fatto, cioè, di non stabilire un immediato collegamento concettuale con i prodotti e servizi contrassegnati), dell’uso effettivo e continuo per un apprezzabile lasso di tempo e della comprovata notorietà non puramente locale. In questa valutazione, ha avuto un peso determinante la documentata attività sul mercato italiano del sito ufficiale dell’azienda per diversi anni.

Sulla scorta di questo accertamento preliminare, il Collegio ha giudicato illecite tutte le modalità di impiego dei segni delle attrici poste in essere dalla convenuta, e cioè, non solo l’integrazione del nome della casa madre nella propria ditta e nome a dominio – per interferenza sia con l’identico marchio delle attrici, sia con il cuore della denominazione sociale di queste – ma anche  l’uso di marchi di prodotto delle attrici all’interno del proprio sito; ciò, nonostante si trattasse di un sito di vendita di prodotti originali, e anche per il periodo successivo all’eliminazione del marchio d’azienda dal nome a dominio e dalla ditta della convenuta.

Secondo i Giudici milanesi, infatti, la riproduzione dei marchi delle attrici nel sito della convenuta creava in ogni caso un indebito collegamento con le prime, escludendo l’applicabilità dell’eccezione di uso descrittivo. Quest’ultima, secondo il Tribunale, è applicabile solo ove il marchio altrui sia identificato come tale (cioè come non proprio) e sia utilizzato allo stretto scopo, non altrimenti raggiungibile, di indicare la destinazione di prodotti o servizi; non già, invece, quando esso sia usato proprio come marchio, nel caso specifico come veicolo promozionale della propria attività.

Quanto all’impiego del servizio di sponsorizzazione Google AdWords per le ricerche fatte usando il marchio d’azienda come chiave – allo scopo di far comparire il sito della convenuta in posizione privilegiata anche rispetto a quello ufficiale nella lista dei risultati – il Tribunale ha applicato i principi degli arcinoti precedenti comunitari Interflora, Google France e Portakabin, per giungere alla conclusione che l’annuncio della convenuta, rappresentato dall’insieme del link pubblicitario e da una breve catch-phrase che ancora una volta richiamava il nome della casa madre,  fosse atto a indurre l’utente a erroneamente identificare l’esistenza di un’identità tra la titolare e la convenuta “anche attraverso l’invio ad una sito del tutto analogo a quello delle attrici, che accentua l’impressione di una perfetta sovrapposizione”.

Il Tribunale ha, altresì, giudicato lesiva dei diritti di marchio la commercializzazione stessa di prodotti delle attrici, seppur originali, sul mercato italiano. La convenuta aveva prevedibilmente eccepito l’esaurimento dei diritti, cioè l’immissione nel SEE con il consenso del titolare. I Giudici milanesi hanno tuttavia respinto l’eccezione, rilevando che le ricevute d’acquisto esibite dalla convenuta non consentissero di provare l’intera catena degli acquisti, a ritroso, fino al titolare dei diritti, e dunque non documentassero l’intervenuto primo acquisto dalla titolare o con il suo consenso nello spazio SEE (al contrario, esse contenevano elementi tali da far sospettare l’acquisto al di fuori del SEE, come l’indicazione di costi di importazione); e che, in ogni caso, la vendita fosse avvenuta “con modalità tali da recare pregiudizio alla titolare del segno” (ovvero, mediante un sito atto a ingannare il pubblico circa la sussistenza di un collegamento con le attrici) “con conseguente inapplicabilità del principio dell’esaurimento di cui all’art. 5 c.p.i., sussistendo un motivo legittimo della titolare per opporsi all’ulteriore commercializzazione”.

Così accertata la lesività delle condotte contestate, il Tribunale ha ritenuto che ne sia derivato danno alle attrici, tenendo conto del lasso temporale (diversi anni), delle modalità (“particolarmente diffusive, trattandosi di promozione e vendita via web, dunque destinata ad un pubblico potenzialmente illimitato”) e della pluralità delle lesioni. In sede di liquidazione del danno, effettuata in via equitativa, i Giudici, premesso che “gli utili conseguiti dall’autore dell’illecito possono essere valutati quale parametro per quantificare il danno”, hanno scelto di quantificare il danno come quota presumibile del fatturato derivante dalle attività illecite, documentato nel corso dell’istruttoria mediante esibizione di scritture contabili ed estratti di conto corrente.

La convenuta è stata pertanto inibita dall’uso di segni delle attrici e dalla vendita di prodotti non introdotti nel SEE dalle attrici, con penale di Euro 500 per ogni giorno di ritardo nell’ottemperanza, ingiunta di pubblicare a proprie spese il dispositivo della sentenza sull’home page del proprio sito e sul Corriere della Sera e condannata al risarcimento di danni e spese legali.

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