Facebook condannata per la pubblicazione non autorizzata di contenuti audiovisivi

Con la sentenza n. 3512 del 15 febbraio 2019, la Sezione specializzata in materia di Impresa del Tribunale di Roma si è pronunciata nella causa vertente tra Reti Televisive Italiane SpA (RTI) e la signora V.P., da un lato, e Facebook Inc. e Facebook Ireland Limited (congiuntamente, Facebook), dall’altro.

Le attrici avevano chiesto la condanna di Facebook per la creazione da parte di utenti dell’omonimo social network, nel febbraio 2010, di una pagina non autorizzata contenente video e commenti offensivi nei confronti di V.P. e RTI, link a video disponibili su portali non autorizzati (nella specie, YouTube) tratti dalla serie animata “Kilari”, trasmessa in esclusiva per l’Italia da RTI su “Italia1”, e una fotografia di V.P. nei panni di “Kilari”, protagonista del cartone per il quale la stessa V.P. aveva realizzato la sigla. Secondo le attrici, quanto precede costituiva violazione dei diritti d’autore e di marchio di RTI, violazione dei diritti alla reputazione di entrambe le attrici, e violazione ai diritti di immagine e sul nome e voce dell’artista V.P. Nonostante le numerose diffide inviate da RTI a Facebook, la pagina web oggetto di contestazione era stata rimossa solo agli inizi del 2012. Le attrici avevano quindi agito per ottenere che Facebook fosse inibita dalle condotte in questione e condannata a risarcire loro i danni, indicati in € 250.000 per ciascuna delle attrici.

Facebook si era difesa eccependo in via pregiudiziale il difetto di giurisdizione del Giudice italiano. Nel merito, le convenute avevano affermato l’assenza di alcuna responsabilità da parte loro ai sensi della normativa nazionale (artt. 16 e 17 del D.lgs. n. 70/2003), vista la loro asserita natura di hosting provider passivi, l’asserita inidoneità delle diffide ricevute alla individuazione dei contenuti lesivi e la mancanza di un ordine di rimozione dei contenuti emesso da una pubblica autorità. Inoltre, avevano negato la natura illecita delle condotte contestate invocando il diritto di critica e di satira e sostenendo che il mero linking di contenuti pubblici, anche senza il consenso del titolare dei diritti, non costituiva di per sé violazione dei diritti di privativa. Infine, avevano eccepito l’inesistenza dei danni lamentati dalle attrici.

Nel rigettare le difese di Facebook, il Tribunale ha affermato in primo luogo che la giurisdizione del giudice italiano sussiste in virtù del criterio del forum commissi delicti ai sensi dell’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 1968, che opera anche per i Paesi non firmatari della convenzione, quali gli Stati Uniti d’America dove ha sede legale Facebook Inc., in quanto recepito in Italia dalla legge n. 218/1995. Nel caso di specie, il Tribunale ha affermato che occorre fare riferimento al luogo in cui si è consumato l’evento lesivo ossia dove la sig.ra V.P. è residente e dove RTI esercita la propria attività d’impresa, senza che assumano rilievo né il luogo dove hanno sede le convenute né quello dei server dove gli utenti hanno caricato i file contestati. In proposito, il Giudice ha inoltre escluso l’applicabilità delle regole sull’utilizzo della piattaforma Facebook, che governano esclusivamente il rapporto contrattuale tra gli utenti e i titolari del portale.

Nel merito, secondo costante orientamento giurisprudenziale, il Tribunale ha ritenuto non operante nel caso in esame la scriminante dell’esercizio del diritto di critica e di satira. Infatti, le espressioni rinvenute nel profilo sopra menzionato travalicano “il limite della continenza, in quanto si risolvono in aggressioni del tutto gratuite e distruttive dell’onore e della reputazione” dell’artista e dell’impresa RTI, per essersi avvalsa dell’opera dell’artista medesima.

Circa la pubblicazione di collegamenti ipertestuali a portali di terzi, il Tribunale ha affermato che la diffusione dei video tratti dalla sigla del cartone animato “Kilari” tramite la piattaforma Facebook, in assenza di specifica autorizzazione di RTI, integra un’ipotesi di comunicazione ad un pubblico nuovo (ossia diverso da quello in origine autorizzato dal titolare del diritto, in continuità con l’orientamento espresso dalla CGUE nel caso C-161/17 qui commentato) e, in quanto tale, è da ritenersi condotta illecita.

Premesso ciò, il Tribunale si è soffermato sull’accertamento della responsabilità di Facebook per aver concorso alle violazioni poste in essere dagli utenti. In merito, dopo aver classificato l’attività delle convenute come prestazione di servizi di hosting, il Tribunale ha ricordato che l’art. 16 comma 1 del D. lgs. 70/2003 esclude la responsabilità del prestatore qualora quest’ultimo: a) non sia effettivamente a conoscenza dell’illiceità dell’attività o dell’informazione, ovvero, per quanto attiene alle azioni risarcitorie, non sia a conoscenza di fatti che rendano manifesta tale illiceità; b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso. Sul punto, il Tribunale ha affermato che “le due ipotesi prese in considerazione dalla disposizione di legge sono tra loro alternative, nel senso che è sufficiente che non ricorra anche una sola di esse affinché il provider non sia esente da responsabilità”; ciò, in accordo con la propria recente sentenza nel caso Vimeo commentata qui su questo blog, e con una interpretazione evidentemente orientata a conformarsi al dettato della Direttiva CE 2000/31, di cui il D. Lgs. 70/2003 è attuazione, che al corrispondente art. 14 non prevede la necessità di alcun ordine da parte delle autorità competenti. Il Tribunale ha perciò affermato che “l’effettiva conoscenza del provider – ancorché acquisita ex post – della natura illecita dei contenuti caricati sui propri server è sufficiente ad integrare la responsabilità di quest’ultimo, non essendo necessario attendere un provvedimento di rimozione emanato da una pubblica autorità” e ciò indipendentemente che l’attività svolta dal provider sia riconducibile alla figura dell’hosting provider attivo (provider che interviene sui contenuti dei materiali caricati dagli utenti) o passivo (provider che assume una posizione neutrale rispetto alle informazioni immesse dagli utenti). Infatti, continua il Tribunale, “anche il cd. hosting provider passivo, non appena ricevuta la notizia dell’illecito commesso dai fruitori del suo servizio, deve attivarsi al fine di consentire la pronta rimozione delle informazioni illecite immesse sul sito o per impedire l’accesso ad esse, in quanto egli è tenuto a svolgere la propria attività economica nel rispetto di quella diligenza che è ragionevole attendersi per individuare e prevenire le attività illecite specificamente denunciate”. Nel caso di specie, afferma il Giudice, era stato documentalmente provato che le società convenute fossero state adeguatamente informate dei contenuti illeciti del profilo in contestazione e non avessero adottato le misure ragionevolmente esigibili per impedirne la diffusione.

Sulla base di ciò, il Tribunale ha concluso “per l’accertamento della responsabilità delle due convenute a titolo di cooperazione colposa mediante omissione” per la violazione di tutti i diritti azionati dalle attrici, eccetto quelli sul marchio “Italia 1”di cuiFacebook non risultava essersi mai appropriata per commercializzare o pubblicizzare propri servizi o prodotti; ha accolto la domanda di inibitoria accompagnata da penale e ha condannato le convenute, in solido, a risarcire alla sig.ra V.P. la somma di euro 15.000,00 e a RTI la somma di euro 15.595,00, oltre alle spese legali, nonché a provvedere a proprie spese alla pubblicazione della sentenza.

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La validità del brevetto e i limiti di protezione del trovato. Ordinanza della Cassazione civile n. 6373/2019

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Il Tribunale di Bari a tutela del marchio Supreme