La Cassazione sull’apposizione del “Made in Italy” nel settore calzaturiero

La Corte di Cassazione, con sentenza della Terza Sezione Penale n. 19650/12 pubblicata lo scorso 24 maggio, ha affermato la potenzialità ingannatoria della dicitura “Made in Italy” su prodotti calzaturieri la cui lavorazione sostanziale sia avvenuta, in realtà, in altro Paese.

La pronuncia si riferisce alla vicenda di un ingente sequestro di gambali e solette targate “Made in Italy” ma provenienti dalla Romania e destinati a una società italiana. Con l’ordinanza oggetto del ricorso il Tribunale delle Libertà di Gorizia aveva confermato il sequestro ritenendo le merci sequestrate non di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, non essendo stato dimostrato che in Italia ne fosse avvenuta “l’ultima trasformazione sostanziale” come richiesto dall’art. 36 del Regolamento CE n. 450/08 (c.d. “Codice Doganale Comunitario”). In tale situazione, il Tribunale di Gorizia aveva quindi ritenuto che la commercializzazione con la dicitura “Made in Italy” integrasse il reato di “vendita di prodotti industriali con segni mendaci” di cui all’art. 517 c.p. (…)

La Corte di Cassazione nella propria sentenza conferma la decisione del Tribunale pur ribadendo innanzitutto il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui per “origine” o “provenienza” di un prodotto deve intendersi la sua provenienza non da un determinato luogo di fabbricazione, bensì da un determinato produttore “che si assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica della produzione e si rende garante della qualità del prodotto nei confronti degli acquirenti”. In generale, quindi, un imprenditore ben può apporre il proprio marchio e luogo di stabilimento (italiani) alla propria merce senza incorrere nel reato contestato, anche se la merce in questione è stata prodotta all’estero (come nel caso del marchio “Thun – Bolzano” affrontato in passato dalla Cassazione).

Nel caso in esame, però, si era di fronte alla positiva indicazione “Made in Italy” su prodotti non realizzati in Italia, cosa che già in passato la Cassazione aveva sanzionato rilevando che un conto è indicare sui prodotti il nome del produttore italiano e la località in cui esso ha sede, un altro è invece applicare sui prodotti la scritta “Made in Italy”. In tal modo, infatti, si fornisce al consumatore una indicazione che viene normalmente intesa nel senso che il prodotto è stato interamente fabbricato in Italia, e quindi una indicazione che – qualora invece il prodotto sia stato fabbricato all’estero – è sicuramente falsa circa l’origine del prodotto stesso e idonea a trarre in inganno il consumatore, e integra perciò il reato di cui all’art. 517 c.p. (Cass. Pen. n. 34103/05, n. 27250/07).

In aggiunta, nel caso in questione si era per di più di fronte a prodotti particolari, quali le calzature, per i quali a legge n. 55/2010 prevede che la dicitura “Made in Italy” possa esservi apposta solo se almeno due delle quattro fasi – legislativamente individuate – della lavorazione sono avvenute in Italia, e sempre che le altre fasi siano “tracciabili” (ovvero ne sia indicato il luogo di lavorazione). Ciò secondo la Cassazione non avveniva nel caso di specie.

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