Contratti di licenza di marchio: alcune precisazioni dal Tribunale di Milano

Lo scorso 29 marzo, il Tribunale di Milano ha emanato una interessante sentenza (n. 3925/2016) in materia di contratti di licenza di marchio, che ha chiarito alcuni principi relativi alla loro conclusione e efficacia.

Le parti in quella vertenza affermavano l’una di aver concluso un contratto di licenza a titolo oneroso e di aver diritto perciò al pagamento del corrispettivo, l’altra di averlo concluso a titolo gratuito e quindi di non essere tenuta al pagamento; il tutto a fronte di una scambio di bozze di contratto che non era stato seguito dalla sottoscrizione dell’accordo finale, ma che aveva visto la licenziataria utilizzare comunque il marchio.

Nelle sentenza in commento, i Giudici ricordano innanzitutto che “il contratto di licenza di marchio è libero nelle forme e può essere stipulato tanto verbalmente quanto per fatti concludenti; la prova di tale negozio può essere quindi raggiunta anche a mezzo di testimoni o per presunzioni, purché idonei a manifestare un raggiunto consenso”. Tale contratto, aggiungono, è normalmente un contratto oneroso a prestazioni corrispettive, in cui il licenziatario versa un corrispettivo a fronte dell’autorizzazione a utilizzare il marchio. Ciò, affermano i Giudici, “conduce a escluderne la gratuità, che importerebbe un arricchimento ingiustificato del licenziatario”, salva diversa pattuizione delle parti.

In tale contesto, sarebbe stato onere della licenziataria dimostrare che il contratto era a titolo gratuito, mentre la licenziataria non aveva offerto alcuna prova in merito. Al contrario, era stata depositata in giudizio una bozza del contratto di licenza, inviata dalla licenziante alla licenziataria via email, in cui era previsto uno specifico corrispettivo. Benchè la licenziataria negasse di aver ricevuto quella bozza e di averla accettata, i Giudici nella sentenza in esame ritengono che invece essa l’avesse ricevuta e accettata per fatti concludenti, sulla base delle seguenti considerazioni:

  • quanto alla bozza inviata, “benché privo della firma elettronica avanzata del mittente e, quindi, carente dell’efficacia probatoria propria dell’art. 2712 c.c. che ne garantisce l’identificazione univoca, tale documento ‘sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità’ (cfr. art. 21 del d.lgs. 82/2005)”;

  • quanto alla ricezione della medesima da parte della licenziataria, “l’indirizzo e-mail a cui parte attrice ha inviato tale bozza coincide con quello utilizzato in altra occasione nello scambio di corrispondenza tra le parti. Esso coincide dunque con quello ‘dichiarato’ dalla convenuta: con la conseguenza che il messaggio ad esso inviato ‘si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all’indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore’ (cfr. art. 21 d.lgs. n. 82/2005 in materia di documento informatico e art. 1, comma 1, lettera b), del D.P.R. 137/2003)”;

  • la licenziataria aveva peraltro dato attuazione a una delle previsioni della bozza contrattuale, ovvero quella che prevedeva che essa dovesse inviare alla licenziante, per sua approvazione, le bozze dei disegni dei prodotti recanti il marchio;

  • la licenziataria aveva utilizzato il marchio successivamente al ricevimento di quella bozza.

Da quanto sopra il Tribunale fa discendere il diritto della licenziante ad ottenere il pagamento del corrispettivo pattuito nella bozza; condanna quindi la licenziataria a pagarlo e a rifondere alla licenziante le spese di lite.

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