Repressione penale della contraffazione di marchi: dal falso grossolano alla tenuità del fatto

Due recenti pronunce delle sezioni penali della Corte di Cassazione in tema di detenzione e vendita di prodotti recanti marchi contraffatti (sezione II, n. 55079 dell’11-10-2017; sezione V, n. 48109 del 18-10-2017) consentono di fare il punto sulla cd. contraffazione grossolana, e cioè su quelle ipotesi di falso talmente palesi ed evidenti da rendere assolutamente impossibile la consumazione del reato destinato a sanzionare tali condotte.

La questione è notissima.

Il “commercio di prodotti con segni falsi” è punito dall’art. 474, comma 2 del codice penale con la pena della reclusione fino a due anni e con la multa fino ad Euro 20.000, sempre che non vi sia concorso del reo nelle più gravi condotte di contraffazione del marchio o di importazione dei prodotti recanti tali segni distintivi (fatti sanzionati con pene più afflittive, rispettivamente dall’art. 473, comma 1 e dall’art. 474, comma 1).

Si discute dell’effettiva applicabilità di tale sanzione alle frequentissime ipotesi in cui nei mercatini rionali, nelle strade, in occasione di manifestazioni pubbliche ecc. sono offerti in vendita, generalmente in pochi esemplari ad opera di cittadini extra-comunitari, (soprattutto) accessori e capi d’abbigliamento realizzati sulla falsariga di prodotti delle griffe più note, i cui marchi sono abusivamente riprodotti ed apposti su tali prodotti.

Le condizioni di vendita di tale merce (a prezzi molto più bassi di quella originale, in contesti del tutto peculiari quali “bancarelle” improvvisate o mercati ecc.), la scarsa qualità dei prodotti falsamente contrassegnati o la grossolanità della riproduzione (del bene e/o del marchio registrato), fanno sì che il compratore sia messo nelle condizioni di rendersi ben conto di non trovarsi di fronte ad un prodotto “originale”; anzi spesso procede all’acquisto nella piena consapevolezza che si tratta di un falso (tra l’altro, frequentemente non ha la disponibilità economica necessaria per acquistare l’originale, né comunque ha l’intenzione di farlo). Addirittura, anche se spesso si tratta di fenomeni differenti da un punto di vista socio-economico, vi sono ipotesi in cui il prodotto viene espressamente offerto in vendita quale mera imitazione, mediante apposite indicazioni (cd. “falsi palesi”), ad esempio nei settori merceologici dei profumi o dei pezzi di ricambio, su cui più volte si è espressa la giurisprudenza della Corte di Cassazione.

In tutti questi casi viene a mancare l’inganno del consumatore rispetto alla funzione di indicatore di provenienza propria del marchio, o comunque difetta l’idoneità decettiva della condotta di offerta in vendita.

Sembrerebbe quindi trattarsi di un’ipotesi di reato impossibile, disciplinata dall’art. 49 comma 2 del codice penale, secondo cui “la punibilità è esclusa quando, per l’inidoneità dell’azione o per la inesistenza del suo oggetto, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”.

Premesso che secondo la pacifica giurisprudenza non rilevano i casi di imitazioni imperfette ma comunque idonee ad ingannare, deve essere subito evidenziato che la non punibilità delle ipotesi sopra descritte, seppur con una certa frequenza avvallata dai giudici di merito, è rarissimamente riconosciuta dalla Corte di Cassazione.

Si tratta di quanto avvenuto anche nelle due vicende oggetto delle pronunce sopra citate:

– nel caso deciso dalla sentenza n. 55079, relativo all’offerta in vendita di fascette riproducenti marchi contraffatti riferibili alla nota cantante Laura Pausini, in occasione di un suo concerto, presentate su uno stand improvvisato all’interno del palazzetto dello sport ove si teneva l’esibizione;

– nel caso deciso dalla sentenza n. 48109, concernente l’offerta in vendita di capi d’abbigliamento sulle bancarelle di un mercato a prezzi particolarmente bassi (vicenda nella quale l’imputato era stato inizialmente assolto in primo grado proprio in applicazione dell’art. 49 c.p.).

In entrambi i casi, la Suprema Corte ha affermato che “secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, integra il delitto di cui all’art. 474 cod. pen. la detenzione per la vendita di prodotti recanti marchio contraffatto senza che abbia rilievo la configurabilità della contraffazione grossolana, considerato che la norma incriminatrice tutela, in via principale e diretta, non già la libera determinazione dell’acquirente, ma la fede pubblica, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi, che individuano le opere dell’ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione anche a tutela del titolare del marchio, sicché si tratta di un reato di pericolo, per la cui configurazione non occorre la realizzazione dell’inganno non ricorrendo quindi l’ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno”.

Effettivamente, come più analiticamente precisato in altre pronunce, “fattori quali le modalità e le condizioni della vendita, le caratteristiche dei disegni, la nazionalità del venditore, il livello del prezzo sono del tutto irrilevanti ai fini che interessano, giacché … il prodotto con marchio contraffatto è destinato alla circolazione e quindi alla visione da parte di un numero indeterminato e indeterminabile di soggetti, rispetto ai quali (la contraffazione del marchio) conserva tutta la sua potenzialità offensiva” (così ad esempio sezione V, 24-10-2013, sentenza n. 5215).

Il reato in questione non tutela l’affidamento di un singolo acquirente, ma di un numero indeterminato di acquirenti-consumatori-utilizzatori (altrimenti detto è un reato di pericolo astratto, per la cui consumazione è sufficiente che possa essere ingannato il “consumatore tipo”, anche se non lo è il singolo acquirente), tanto più che l’art. 474 non tutela la libera determinazione del compratore nell’acquisto (come fa invece l’art. 515 c.p., “frode in commercio”, che appunto sanziona l’inganno dello specifico compratore).

Va tuttavia precisato che l’orientamento della giurisprudenza non è così granitico e privo di sfaccettature come sembra emergere dalle due sentenze in questione (addirittura, la sentenza n. 55079 dichiara il ricorso inammissibile in quanto manifestatamente infondato, condannando il ricorrente a versare la somma di Euro 2000 in favore della Cassa delle Ammende, oltre al pagamento delle spese processuali).

Un’effettiva univocità si può riscontrare solo nelle ipotesi, analoghe al caso di specie, in cui la presunta inidoneità è da ricollegarsi esclusivamente alle modalità di vendita della merce. In questi casi, in effetti, solo un’inammissibile e radicalmente differente interpretazione della norma, tale per cui il focus della tutela si sposta sull’interesse del singolo acquirente, consentirebbe di portare ad esiti assolutori valorizzando elementi attinenti alla (specifica) messa in vendita piuttosto che alla contraffazione (come avvenuto nell’isolata, e tanto nota quanto giustamente criticata sentenza della quinta sezione n. 2119 del 23-02-2000, imputato Diaw Papa).

Vi sono tuttavia ipotesi di falsificazione grossolana in cui risulta effettivamente impossibile la lesione della fede pubblica: si tratta proprio delle ipotesi che più propriamente vanno definite quali “contraffazioni grossolane”, attinenti specificatamente a requisiti intrinseci del bene, che prescindono dalle modalità di vendita. Infatti, diversamente da quanto è dai più ritenuto (compresi gli estensori delle due pronunce sopra citate, così come, ad esempio, quelli delle sentenze n. 39025 del 09-08-2017, n. 51001 del 30-11-2016, n. 14090 del 08-04-2015), vi sono non poche sentenze che questi casi individuano degli spazi di applicabilità per l’art. 49 c.p., qualora l’inveritiera provenienza “sia riconoscibile ictu oculi, senza necessità di particolari indagini, e si concreta in un’imitazione così ostentata e macroscopica per il grado di incompiutezza da non poter ingannare nessuno” (n. 5215 del 24-10-2013) ovvero sia “tale da escludere l’idoneità decettiva quanto alla provenienza del prodotto non solo nei confronti dello specifico acquirente ma della intera collettività” (n. 38382 del 01-08-2017).

Con una necessaria precisazione. Diversamente da quanto ritenuto dalla maggior parte delle pronunce che aderiscono all’indirizzo meno rigoroso (ad es. n. 38382 del 01-08-2017, n. 30958 del 15-07-2014, n. 5215 del 24-10-2013, n. 16821 del 03-04-2008),

secondo le quali vanno valutate tanto le caratteristiche del marchio quanto quelle della fattura del prodotto cui è indebitamente apposto, l’unico elemento rispetto al quale può avere rilievo la grossolanità della contraffazione è il marchio, poiché ai sensi dell’art. 474 oggetto della contraffazione è esclusivamente il segno distintivo, e non il prodotto (correttamente, ad es., n. 33543 del 05/10/2006).

Ed è proprio alla stregua di questi principi che deve essere risolta l’ipotesi dei falsi palesi, non punibili solo qualora le indicazioni riguardanti la corretta provenienza del bene siano non solo visibili da chiunque ma siano anche “contestuali” al marchio abusivamente riprodotto (ad esempio tramite la dicitura “tipo” apposta prima del marchio denominativo, oppure collocando la dicitura “falso d’autore” e analoghe nella stessa parte del prodotto o della confezione dove è riprodotto il marchio, e con il medesimo risalto; cfr. sentenze n. 5957 del 15/02/2012; n. 14876 del 09-01-2009).

All’esito di quest’excursus, è del tutto evidente che gli spazi per applicare la categoria del reato impossibile alla contraffazione grossolana, per come sopra descritta, sono (correttamente) ridottissimi.

Preso atto di ciò, è particolarmente interessante lo spunto offerto da una delle due sentenze analizzate, la n. 48109, la quale, pur ritenendo non configurabile l’ipotesi del reato impossibile, ha comunque accolto il ricorso dell’imputato in quanto la Corte di merito aveva omesso di valutare la richiesta del medesimo di valutare la possibilità di escluderne la punibilità per tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131 bis del codice penale. Secondo tale disposizione, introdotta nel 2015 in relazione a reati di non eccessiva gravità, è possibile affermare la non punibilità in concreto del reo quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma c.p. (modalità dell’azione; gravità del danno o del pericolo; intensità del dolo o grado della colpa), l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.

Effettivamente, l’applicazione di questa disposizione potrebbe dare rilievo ad alcune circostanze altrimenti ininfluenti: in primo luogo lo scarso numero di beni contraffatti offerti in vendita, unitamente alla grossolanità della contraffazione qualora sia talmente palese da ridurre grandemente le possibilità di confusione, e quindi di offesa.

Tutto ciò, senza rinunciare alla tutela delle esigenze repressive dello Stato nei confronti delle organizzazioni criminali, nonché delle ragioni dei titolari dei marchi: rimarrebbero infatti pienamente punibili le condotte di produzione, importazione e vendita abituali e comunque quantitativamente significative, fermo restando che coloro che hanno registrato il segno distintivo potrebbero in ogni caso esperire la tutela civile ex art. art. 651 bis c.p.p., forti del vincolo derivante da un accertamento svolto in sede penale in relazione alla sussistenza del fatto di reato, seppur tenue.

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