Il Tribunale di Torino tutela le bande colorate di K-WAY

Con la sentenza n. 5801 del novembre 2017, il Tribunale di Torino si è espresso nella causa promossa da Basic Net s.p.a. e Basic Italia s.p.a. (infra collettivamente “Basic”), rispettivamente titolare e licenziataria del noto brand K-Way, contro Giorgio Armani s.p.a. per via della commercializzazione, ad opera di quest’ultima, di prodotti recanti delle bande colorate in asserita contraffazione dei diritti di marchio figurativo “striscia colorata” di Basic. Di seguito si riportano, nell’ordine, i marchi di Basic in oggetto e il prodotto Armani in contestazione.

Il Tribunale preliminarmente si è espresso sulla validità del marchio di fatto “striscia colorata”, condividendo le argomentazioni svolte dal Tribunale dell’Unione Europea (“TUE”) nel procedimento T‑612/15 riguardante la domanda di registrazione del relativo marchio figurativo comunitario. In tale sede, il TUE aveva confermato il rigetto della domanda di registrazione del segno per carenza di distintività. In particolare, il TUE aveva ritenuto il segno carente della capacità distintiva necessaria per la registrazione, perché non “idoneo a distinguere il prodotto o il servizio contraddistinto da detto segno come proveniente da un’impresa determinata e quindi idoneo a distinguere tale prodotto o servizio da quelli di altre imprese”. Tuttavia, il TUE aveva verificato l’acquisizione di un carattere distintivo in seguito all’uso (c.d. “secondary meaning”) in quattro Stati dell’Unione Europea, tra cui l’Italia.  Ciò che, benché insufficiente ai fini della registrazione come marchio comunitario (in quanto non relativo a “una parte significativa del pubblico destinatario dell’UE”), è stato chiaramente ritenuto rilevante per la decisione in commento.

In merito, il TUE aveva rilevato che il marchio richiesto era in realtà sempre stato usato in combinazione con il marchio registrato K-WAY di Basic, ma aveva comunque riconosciuto che “l’acquisizione del carattere distintivo di un marchio può anche derivare dal suo uso in combinazione con un marchio registrato. E’ sufficiente che in conseguenza di tale uso gli ambienti interessati percepiscano effettivamente il prodotto o il servizio designato dal marchio come proveniente da una determinata impresa”. Proprio con riferimento a quest’ultimo assunto, il TUE aveva evidenziato che in Italia, così come in Francia, nei Paesi Bassi e nel Regno Unito, il segno “striscia colorata” vantava “una presenza solida e prolungata sul mercato della moda”, in particolare su riviste e cataloghi pubblicitari, ed era stato “utilizzato, per un’ampia gamma di prodotti diversi, in maniera coerente, sempre con la stessa combinazione di colori, durante un lungo periodo compreso tra il 2000 e il 2014”. Nel caso di specie, aveva aggiunto il TUE, “nei quattro Stati membri summenzionati, il pubblico di riferimento o parte significativa di quest’ultimo percepirà il marchio richiesto come una indicazione dell’origine commerciale dei prodotti interessati, poiché l’uso del marchio richiesto, anche in combinazione con il marchio dell’Unione europea figurativo K-WAY registrato ha creato un collegamento nella mente del pubblico di riferimento con i prodotti forniti dalla ricorrente”.

Basandosi su tali argomentazioni, il Collegio giudicante ha concluso che il segno “striscia colorata” in Italia costituisce “un valido marchio di fatto, dotato di autonoma capacità distintiva anche se usato in combinazione con il marchio KWAY”.

Il Collegio ha peraltro rigettato l’argomentazione della convenuta secondo cui la striscia colorata in questione, in un contesto di mercato di abbigliamento caratterizzato da strisce, sarebbe percepita dal pubblico esclusivamente come elemento decorativo. A tal proposito il Tribunale ha affermato che “risulta del tutto irrilevante che tale marchio possa avere anche una funzione ornamentale. Infatti, carattere distintivo e carattere ornamentale sono elementi da considerare separatamente e, in presenza del primo diventa irrilevante che il marchio figurativo abbia anche una valenza decorativa”.

Ciò posto, ed avendo confrontato visivamente i segni rivendicati da parte attrice e posizionati sui giubbini Kway con le bande colorate poste sul prodotto della Giorgio Armani s.p.a. e avendoli ritenuti simili, il Collegio giudicante ha ritenuto altresì i prodotti da essi contraddistinti “quanto meno molto simili (nel senso che appartengono alla medesima linea di abbigliamento sportivo/casual) e venduti a prezzi del tutto comparabili”. Da ciò deriva un rischio di confusione tra il marchio di fatto attoreo e la banda colorata che appare sul capo Armani di “immediata evidenza”.  L’impatto confusorio, secondo il Tribunale, deriva dall’uso della banda colorata, dall’impatto visivo complessivo da essa generato e dal suo posizionamento ai lati delle cerniere, nonché dal fatto che entrambi i prodotti recanti la striscia in questione siano commercializzati presso i medesimi negozi e che il loro costo sia pressoché analogo. Tali circostanze “possono infatti concretamente indurre il consumatore a ritenere che tra le due aziende siano in corso operazioni di co-branding invece insussistenti”.

Infine, il Collegio giudicante ha escluso la pertinenza alla vicenda in questione del principio del c.d. imperativo di disponibilità opposto dalla convenuta Infatti tale principio “seppure opera nel senso che non può essere impedito l’uso (nel caso) di strisce su capi di abbigliamento – non copre e non consente abusi da parte dei terzi, i quali ultimi, pertanto, devono pur sempre differenziarsi attraverso distinguishing additions o altre variazioni arbitrarie, sufficienti ad elidere il rischio di confusione”. Nel caso di specie, invece, le addizioni apposte da Armani (alias le famose aquile stilizzate e il marchio “AJ ARMANI JEANS”) non sono considerate sufficienti a differenziare il prodotto. Infatti, secondo il Tribunale, l’apposizione di un marchio notorio sul prodotto non esclude la contraffazione del marchio figurativo altrui; se così non fosse “si arriverebbe alla paradossale conseguenza di consentire ai titolari del primo di appropriarsi liberamente del secondo, con il solo accorgimento di impiegarlo in associazione con il proprio segno distintivo, molto affermato sul mercato e fortemente distintivo e riconoscibile”. 

Per tutto quanto sopra, la Corte ha concluso dichiarando che il comportamento posto in essere dalla Giorgio Armani s.p.a. “costituisce atto di contraffazione ex artt. 20, c.1, lett. b) c.p.i. e 9 r.m.c., nonché atto di concorrenza sleale confusoria”. Ha dunque emesso nei confronti della società convenuta un ordine di inibitoria dall’importazione, esportazione, vendita, commercializzazione e pubblicizzazione di prodotti della classe 25 (in particolare giubbini) recanti il marchio oggetto di causa o altro marchio contenente il segno in questione esteso al territorio dell’Unione Europea e un ordine di distruzione in Italia dei prodotti contraffatti.

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