Il Tribunale di Milano sulla registrazione del marchio in mala fede

(Pubblicato anche su Diritto24 de Il Sole 24 Ore)

Con sentenza pubblicata lo scorso 14 luglio (R.G. n. 43968/11) il Tribunale di Milano, Sezione Specializzata in materia di Impresa “A”, ha affrontato il tema della registrazione del marchio in mala fede di cui all’art. 19 co. 2 D. Lgs. 30/2005 (Codice della Proprietà Intellettuale, “CPI”). La norma, come è noto, afferma che “non può ottenere una registrazione per marchio di impresa chi abbia fatto la domanda in mala fede”; in conformità con essa, l’art. 25 co. 1 b) CPI prevede che il marchio registrato in mala fede sia nullo.

La vicenda da cui origina la pronuncia vedeva contrapposte un’agenzia pubblicitaria e una società cliente di quest’ultima. La cliente aveva agito in giudizio lamentando che l’agenzia pubblicitaria avesse registrato in mala fede in nome proprio i marchi della cliente stessa, e chiedeva quindi che tali marchi fossero dichiarati nulli e l’agenzia pubblicitaria fosse inibita dall’utilizzarli. Dal canto suo, l’agenzia pubblicitaria affermava di avere registrato i marchi su incarico della cliente e di essersi rifiutata di trasferirli a quest’ultima per via del mancato pagamento, da parte della cliente, delle spese e del corrispettivo per il deposito dei marchi nonché per il loro sviluppo da parte dell’agenzia.

Nella pronuncia in esame, il Tribunale premette innanzitutto che “l’ipotesi  di  registrazione  in  malafede,  contemplata dall’art. 19 C.P.I., è un rimedio che tutela la legittima aspettativa del  soggetto  rispetto  ad  un  determinato  marchio,  pregiudicata  dalla più  tempestiva  registrazione  del  medesimo  segno  compiuta  da  altro soggetto  (consapevole  delle  intenzioni  del  primo)  che  agisca  allo scopo proprio di ostacolare il progetto del concorrente”.

Nel caso di specie, continua poi la sentenza, risulta in effetti provato che l’attrice aveva una legittima aspettativa alla registrazione dei marchi litigiosi, che già utilizzava da anni, e aveva conferito all’agenzia il solo incarico di procedere allo sviluppo ed alla rielaborazione dei marchi medesimi. In aggiunta, risulta provato che l’agenzia convenuta aveva leso tale legittima aspettativa registrando i marchi in nome proprio pur conoscendo i diritti della cliente sugli stessi e approfittando del rapporto contrattuale esistente con la cliente. In tale contesto, afferma il Tribunale, la mala fede dell’agenzia poteva essere desunta da una serie di circostanze emerse nel corso del giudizio, ovvero dal fatto che:

i)                    la cliente aveva dato incarico all’agenzia di procedere al deposito dei marchi, ma certamente non a farlo in nome dell’agenzia medesima;

ii)                   nulla nell’accordo tra agenzia e cliente poteva far pensare all’agenzia, in buona fede, di avere ricevuto l’incarico di registrare i marchi in proprio nome (cosa che, aggiunge peraltro chi scrive, nemmeno corrisponde alla prassi di registrazione di marchi);

iii)                 l’agenzia aveva richiesto un corrispettivo “non irrisorio” per trasferire alla cliente la titolarità dei marchi. “Ciò  dimostra”, afferma il Tribunale, “che  i  marchi  sono  stati utilizzati uti dominus ed illecitamente, da parte della convenuta, che ne  ha  vantato  la  piena  titolarità,  al  punto  da  richiedere, all’effettiva titolare, un corrispettivo a fronte della loro cessione”.

Alla luce di quanto precede, il Tribunale ha dichiarato la nullità dei marchi registrati dall’agenzia per registrazione in malafede, inibendo l’agenzia dall’utilizzo dei medesimi e condannando quest’ultima al pagamento delle spese di lite.

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