Anche solo un titolo di giornale può essere diffamatorio, dice la Corte di Cassazione

Con l’ordinanza n. 17656 del 2 luglio 2019, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dall’Ente Autonomo per le Fiere di Verona (“l’Ente”) avverso la sentenza del Tribunale di Roma emessa nel procedimento per diffamazione a mezzo stampa che l’Ente stesso aveva promosso contro il Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A. ed alcuni suoi giornalisti (“l’Espresso”).  

L’Ente, organizzatore, tra le altre, della nota manifestazione di prodotti vinicoli “Vinitaly” e titolare dell’omonimo marchio, aveva convenuto in giudizio il Gruppo Editoriale l’Espresso chiedendo al Tribunale di Roma di condannarlo al risarcimento dei danni per la pubblicazione sull’Espresso di due articoli intitolati “Benvenuti a Velenitaly” e “Nel Brunello c’è il tranello”, riferiti ad indagini penali relative a sofisticazioni alimentari di prodotti vinicoli. L’Ente, del tutto estraneo alle indagini oggetto degli articoli, lamentava il danno d’immagine al marchio “Vinitaly”, derivante a suo dire dall’uso nel titolo della parola “Velenitaly”, storpiatura del segno, nonché dal contenuto stesso degli articoli, pubblicati in concomitanza con l’apertura della manifestazione del 2008 ed accompagnati dalla rappresentazione fotografica di una bottiglia e di un bicchiere di vino.

Il Tribunale di Roma aveva tuttavia rigettato la domanda, rilevando che gli articoli in questione non facevano nessun riferimento alla manifestazione fieristica, che l’Ente non aveva titolo per vantare alcuna esclusiva sul suffisso “-italy” e che, dunque, l’eventuale accostamento di quest’ultimo al prefisso “velen-” non aveva alcuna potenzialità diffamatoria. Aveva soggiunto che, in ogni caso, l’attore non aveva fornito alcuna allegazione circa l’effettivo pregiudizio commerciale subito dalla propria attività, né poteva ritenersi legittimato ad agire a tutela dell’immagine della categoria dei produttori di vino, non avendone capacità esponenziale.

La decisione era stata appellata dall’Ente avanti la Corte d’Appello di Roma, che con ordinanza aveva tuttavia dichiarato inammissibile il gravame, in quanto privo di una ragionevole probabilità di essere accolto. L’Ente ha quindi proposto ricorso avanti la Corte di Cassazione[1].

La Corte di Cassazione si è soffermata sull’autonoma potenzialità diffamatoria del titolo “Velenitaly”. Sul punto, ha ricordato che la valutazione circa il carattere diffamatorio di un articolo giornalistico non può fondarsi sulle singole espressioni, ma deve essere svolta con riferimento all’intero contesto, comprensivo di tutti gli elementi che rendono esplicito il significato della comunicazione. In particolare, il contenuto diffamatorio non va riferito solo alla percezione che dell’articolo hanno i lettori attenti, che leggono l’intero contenuto, ma anche a coloro che lo leggono in maniera più frettolosa e che, dunque, possono farsi suggestionare e fuorviare anche solo dal titolo o dalle fotografie.  Pertanto, ha continuato la Corte, “si deve riconoscere particolare rilievo alla titolazione, in quanto specificamente idonea, in ragione della sua icastica perentorietà, ad impressionare e fuorviare il lettore, ingenerando giudizi lesivi dell’altrui reputazione”.

Nel caso di specie, la Corte ha concluso che “l’accostamento del neologismo “Velenitaly”, impiegato nel titolo, alla manifestazione “Vinitaly” è evidente”: secondo la Corte, il giudice di primo grado ha, perciò, errato nel non accertare se la storpiatura presente nel titolo fosse di per sé diffamatoria, indipendentemente dal fatto che un lettore attento, scorrendo l’intero articolo, ben avrebbe potuto constatare l’estraneità ai fatti dell’Ente.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha cassato la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Roma, affinché valuti nel merito l’autonoma capacità diffamatoria del titolo e della veste grafica con cui l’articolo giornalistico è stato presentato al lettore e provveda alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

[1] Ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., quando è pronunciata l’ordinanza che dichiara inammissibile l’appello a norma dell’articolo 348-bis primo comma c.p.c., contro il provvedimento di primo grado può essere proposto ricorso per cassazione.

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